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Sono fuggito dalla siccità, ma la mia casa è il Guatemala

Jorge assieme al figlio di 7 anni vive in Texas da illegale. Aveva una sola scelta: morire o partire

di Maddalena Maltese, da New York

Si ostina a chiamarla casa, nonostante quella casa non gli appartenga da due anni. E’ casa nonostante la siccità, le inondazioni, la bancarotta, la fuga. Jorge vive da rifugiato negli Stati Uniti, ma la sua casa resta il Guatemala: la sua patria, la sua terra. Nel 2019, prima che il coronavirus costringesse alla totale chiusura di attività e città, Jorge aveva deciso che quella casa doveva lasciarla. 

La terra si stava rivoltando contro di lui. Per cinque anni non aveva quasi mai piovuto e quando lo aveva fatto in maniera consistente lui vi aveva gettato gli ultimi semi. Il mais miracolosamente era germogliato e assieme a quei germogli era fiorita anche la speranza di Jorge e della sua famiglia Poi senza preavviso, il fiume aveva rotto gli argini per le piogge e allagato il campo. Jorge ha letteralmente nuotato tra gli steli di mais per raccogliere le pannocchie salvabili e che potevano ancora essere mangiate. L’ultima scommessa su quel campo gli ha fatto cedere la capanna con un tetto di lamiera, dove viveva con la moglie e i tre figli: ipoteca da 1.500 dollari per nuovi semi. Dopo il diluvio, imperterrito torna a seminare, ma stavolta è la siccità a non dar tregua e a far seccare il nuovo raccolto. Di fronte a quelle pannocchie aride Jorge ha deciso di lasciare il Guatemala perché non poteva lasciar morire la sua famiglia. L’Alta Verapaz, la regione dove viveva, è un susseguirsi di montagne con piantagioni di caffè e vallate con altri raccolti. Il fenomeno meteorologico noto come El Niño, che ogni 5 anni riscalda le acque della parte centrale dell’oceano Pacifico, alternando piogge violente a siccità, è sempre più frequente a causa del riscaldamento climatico e sta trasformando le aree semiaride del paese e delle aree equatoriali del Cento America, in deserti. Metà dei bambini di queste fasce climatiche soffre di fame cronica e la loro statura resta piccola, poiché non hanno sufficiente nutrizione.

A marzo, Jorge e suo figlio di 7 anni hanno messo in un sottile sacchetto di nylon nero, un paio di pantaloni ciascuno, tre magliette, biancheria intima e uno spazzolino da denti. Il padre di Jorge ha portato al banco dei pegni le sue ultime quattro capre per racimolare i 2.000 dollari necessari a pagare il transito del figlio e del nipote attraverso il Messico fino al confine con gli Usa. Sono partiti di notte, senza nessuna idea di dove sarebbero finiti o di cosa avrebbero fatto una volta arrivati. Quando sono arrivati alla barriera d’acciaio che separa la California dal Messico, Jorge ha lasciato cadere il figlio dall’altra parte del muro: un volo di oltre sei metri nel pieno deserto californiano. Poi si è lanciato anche lui. Senza documenti e autorizzazioni hanno percorso altri 2.400 chilometri fino a Houston, in Texas, dove Jorge ha trovato lavoro nell’edilizia ed è riuscito a ripagare il debito di viaggio e mandare soldi alla moglie e ai due bambini. Gli mancano. La separazione è intollerabile. Lo scorso luglio la nostalgia è diventata intollerabile. Si è chiesto se tornare e continua a chiederselo, anche se siamo in piena pandemia e El Niño continua a flagellare la sua valle. Il Guatemala è ancora la sua casa.

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