Di Elpidio Pota e Maddalena Maltese
“La via che il Cielo indica al nostro cammino, è la via della pace”. Papa Francesco incontrando i rappresentanti delle religioni nel suo recente viaggio in Iraq, ha voluto indicare con queste parole la strada per la riconciliazione: guardare il Cielo e camminare sulla terra. Anche l’Onu ha fatto della pace e della giustizia l’obiettivo 16 della sua Agenda per il 2030. Abbiamo chiesto a Pasquale Ferrara, inviato speciale del ministro degli Esteri per la Libia, già ambasciatore in Algeria, con incarichi di rappresentanza a Santiago del Cile, Atene, Bruxelles, Washington di capire cosa significa essere costruttori di pace oggi.

Lei proviene dalla terra casertana, ma la sua missione l’ha condotta in tanti paesi a lavorare per la pace tra i popoli. Come è nata la sua passione per la pace e per questo lavoro?
Proprio il fatto di provenire da un piccolo paesino della provincia di Caserta, Arienzo, ha costituito uno stimolo a conoscere il mondo esterno e a coltivare un interesse per le relazioni internazionali. Devo molto alla scuola. Sono stati soprattutto la scuola media ed il liceo ad aprirmi degli orizzonti vasti. Grazie poi alla condivisione di ideali alti con un gruppo di amici, ho maturato la convinzione che solo attraverso il dialogo è possibile risolvere le questioni più spinose. Queste idee, se vogliamo un po’ generiche della giovinezza, si sono poi affinate attraverso il percorso universitario di relazioni internazionali che, dopo, mi ha portato a scegliere la diplomazia come professione. L’esperienza diplomatica in diversi continenti mi ha insegnato che a tutte le latitudini la comune aspirazione degli esseri umani è proprio quella di vivere in pace per realizzare i propri progetti di vita, lo sviluppo nazionale e la cooperazione a livello mondiale.

L’assassinio dell’ambasciatore Attanasio ci ha fatto riflettere sul ruolo della diplomazia nei luoghi di frontiera. C’è una diplomazia che possiamo vivere tutti nel quotidiano?
La tragedia di Luca Attanasio ha fatto scoprire a molti italiani e anche molti osservatori internazionali un lato spesso sconosciuto della diplomazia, che è quello dell’impegno, del mettersi in gioco, di unire la dimensione politica con la dimensione umanitaria. Noi tendiamo a considerare il mondo diplomatico come una realtà a sé, completamente separato dai problemi quotidiani e dalla società civile. Se mai questa distanza fosse avvenuta nel passato, non è più rispondente ai fatti da parecchi decenni. Le nuove generazioni dei diplomatici italiani e non solo, non coltivano più il mito di quella che io ho chiamato la diplomazia perimetrale, cioè quella chiusa nei palazzi e nelle ambasciate. Prende sempre più corpo, invece, una diplomazia che potremmo definire generativa, capace di creare relazioni, di costruire ponti, di trovare nuove vie proprio di fronte a situazioni senza uscita, soprattutto nei casi di conflitto e di distruzione della convivenza civile.
Può indicarci tre parole chiave perché gli obiettivi dell’Agenda 2030, possano arrivare a compimento?
Le tre parole che indicherei cominciano tutte con la lettera C: cura, casa comune, comunità. Abbiamo capito in questi lunghi mesi di pandemia che occorre mettere al centro dell’organizzazione politica, delle società, del mondo, la dimensione della cura intesa come priorità alle persone. Le persone devono costituire il centro focale delle scelte dei governi e delle istituzioni multilaterali. Non possiamo parlare, ad esempio, di sicurezza in senso generale come incolumità, ma va specificato che si tratta anche di capacità e possibilità di realizzare progetti di vita, soprattutto per i giovani. La seconda C è quella di Casa Comune. Qui serve un cambiamento di mentalità nel pensare la politica. La priorità non è l’assetto della nostra società e le relazioni internazionali, ma le ferite inferte al pianeta in cui viviamo e queste devono entrare nell’orizzonte operativo e concettuale di ogni politica. La politica è tale se è planetaria. La terza C è quella di comunità. Nel mondo diplomatico si parla tanto, anzi talvolta troppo, della comunità internazionale come un’entità astratta o, al contrario, come un gruppo di paesi leader che condividono una stessa visione delle cose. La vera comunità internazionale deve ancora nascere, perché va fondata non solo sull’idea di libertà dei paesi e di una loro eguaglianza, ma va costruita sulla fraternità come orizzonte di sviluppo condiviso.
Sappiamo che ha conosciuto Mons. Giovanni D’Alise. C’è un ricordo di lui che vorrebbe condividere?
Don Giovanni D’Alise, vescovo di Caserta, detto (da noi amici) “Giannino”, ci ha lasciati, nella festa di San Francesco, per complicazioni legate al Coronavirus. Per me è stato molto più di un amico. Mi ha insegnato, con l’esempio, l’importanza dell’impegno tra i poveri ed i migranti sfruttati nelle campagne del casertano. Come vice parroco di Cancello è stato il referente del mio fidanzamento e poi ha celebrato il 25° anniversario del mio matrimonio. Prima della mia partenza per Algeri, mi invitò a parlare in Diocesi, a tutti i sacerdoti sul mio libro “Il mondo di Francesco. Bergoglio e la politica internazionale” e sul dialogo con l’Islam. Don Giovanni è una persona della famiglia più stretta e più cara. Un Vescovo che è stato sempre dalla parte dei deboli, un prete che non ha mai avuto paura di “sporcarsi la tonaca”, ma senza toni magniloquenti, con semplicità, nella normalità della sua missione umana, sociale, pastorale.