Un editoriale di Toni Mira, capo redattore dellìAvvenire, nel 36esimo anniversario dell’uccisione di Mario Diana
Ricordo bene quella telefonata. “Mi puoi mettere in contatto con don Ciotti?”. Erano i primi giorni di marzo 2008 e a chiamarmi era Antonio Diana, per me allora solo il titolare della Erreplast, azienda di Gricignano d’Aversa che riciclava bottiglie di plastica. Azienda virtuosa in una Campania in perenne emergenza rifiuti. Sorpreso, gli chiedo il perché. “Ho visto un documentario in cui parla delle vittime delle mafie. Anche mio padre è stato ucciso dalla camorra”. Non me lo aveva mai detto. Ci conoscevamo da alcuni anni ma avevamo parlato solo di rifiuti e di legalità.
Lo metto in contatto con don Luigi e il 21 marzo lo vedo comparire a Bari, in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno promossa ogni anno nel primo giorno di primavera da Libera. Conosce altri familiari di vittime di mafia. E come siano riusciti a trasformare il dolore in positività. Ascolta don Luigi ripetere che “la memoria senza impegno rimane solo un ricordo sterile”. “Cosa posso fare?”, mi disse quel giorno, aggiungendo subito, da serio imprenditore, “qualche cosa farò. Soprattutto per i giovani”. Sicuramente coinvolto dai tantissimi ragazzi presenti all’iniziativa di Libera. Da lì nasce l’idea di perpetuare la memoria del papà in qualcosa di concreto, in una speranza di futuro e di cambiamento.
Da quei primi passi nasce l’idea di una Fondazione intitolata a Mario Diana. Antonio e il fratello Nicola hanno da sempre investito sulle nuove generazioni. Come azienda, assumendo molti giovani destinati altrimenti a portare le loro professionalità in altre terre. Come azienda aperta alle scuole, per farne strumento concreto di educazione ambientale. La Fondazione ha seguito questa strada già tracciata. Un parto non breve. I timori di Antonio sulle prevedibili critiche (“approfittano del nome del padre per farsi pubblicità”). Le idee erano tante. L’incontro col Movimento dei Focolari ha poi portato del sano carburante che ha fatto partire e viaggiare la “macchina” della Fondazione. Formazione, educazione, comunicazione. Sostegno a associazioni e iniziative sui temi ambientali e della legalità, per passare davvero da “terra dei fuochi” a “Terra di don Peppe Diana”. Borse di studio e stage in aziende collegate, per accompagnare il presente e il futuro dei giovani. Ostacoli non sono mancati, da quelli ben noti affrontati con dignità da Antonio e Nicola, alla pandemia che non ha bloccato l’attività della Fondazione, ma fatto realizzare iniziative per giovani e scuole da utilizzare anche da casa. Una Fondazione che guarda avanti ma con radici ben ancorate nella terra. Tra le prima iniziative l’illustrazione della Costituzione attraverso le varie fasi della vita di un albero. Cultura, arte, ricerca, coniugati con legalità e solidarietà, per le fasce deboli della popolazione, italiana e immigrata. Ancora una volta privilegiando i giovani. E con azioni concrete. Poche chiacchiere. Da imprenditori veri, anche nel sociale. Il giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia il 19 settembre 1990, e beatificato come martire lo scorso 9 maggio, scrisse in una delle sue agende: “Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Ognuno nel suo ruolo. Il giovane magistrato era molto attento anche alle questioni ambientali. Quasi quaranta anni fa, anticipando le sensibilità attuali, indagava sull’abusivismo edilizio e gli incendi boschivi, legati alla criminalità organizzata e alla corruzione. Proprio mentre Mario Diana combatteva la sua battaglia per difendere legalità e libertà.
Li immagino nel “Paradiso delle vittime delle mafie”, mentre osservano, insieme, e sicuramente proteggono le loro terre. Sarebbe bello vederli assieme proprio qui, in un’iniziativa della Fondazione per riflettere su come raccogliere il loro testimone. Per essere davvero credibili.