Nell’anniversario dell’uccisione di Mario Diana, vittima innocente della criminalità organizzata
Il lavoro come forma di giustizia. Un mestiere come contributo al benessere e alla pace di una comunità. Mario Diana non era pratico dell’obiettivo 16 dell’Agenda Onu 2030, ma pace, giustizia, lotta allo sfruttamento e ad ogni forma di abuso, da principi teorici, diventavano bussola nella sua quotidianità di imprenditore e misura della fatica di fare impresa in terra casalese.
Il suo ufficio di collocamento era il bar Oreste, nella piazza di Casapesenna. Mario era un abitudinario del caffè e della solidarietà spiccia che si svuotava le tasche degli spiccioli a chi gli chiedeva latte per i figli e che trovava impiego a chi oltre al latte voleva garantire stabilità p’ ‘e piccerille. Autisti, meccanici, contadini, addetti al movimento terra erano i nuovi titoli di disperati, ex detenuti, inesperti, cassaintegrati. Assieme ad un impiego Mario restituiva dignità e libertà, in un mondo di favori estorti e pretesi, di minacce e gioghi, lui costruiva futuro e innovazione. Mario c’era. C’era per il parroco che chiedeva una mano per il trasloco dei ragazzi dell’orfanotrofio, c’era per quella mamma che aveva sorpreso in strada a vendersi, davanti a cui aveva svuotato il portafoglio per convincerla a tornare a casa; c’era per il direttore di banca a cui mostrava orgoglioso i progetti per la sua azienda e per le famiglie che avrebbe impiegato, per convincerlo che il prestito era investimento di sviluppo. C’era negli anni d’oro della Montefibre quando con i suoi camion trasportava i prodotti finiti pronti per il mercato e i rifiuti, macinando anche migliaia di chilometri perché fossero smaltiti adeguatamente. «Nessuno nasce lavoratore» soleva ripetere a chi puntava il dito sui presunti scansafatiche. Lui invece offriva una possibilità e un mestiere a chi aveva fatto della piazza o del bar la sua officina perché quell’ingegno non venisse sprecato e diventasse bene per la comunità.
L’imprenditore istintivo, viscerale, a tratti rude, ma sempre generoso si era conquistato consensi e stima senza ricorrere al clamore delle armi, lo scettro di quelle terre. Ho usato il passato parlando di Mario Diana perché il 26 giugno 1985, quelle armi hanno cantato il suo Requiem proprio nella piazza di Casapesenna, il suo ufficio di collocamento. Quei proiettili non hanno scritto però la parola fine, perché nel nome di Mario si continua a fare impresa, a prendersi cura e ad operare giustizia, fuori dai tribunali ma nei luoghi del quotidiano che possiamo abitare da donne e uomini giusti.